Nella tradizione ebraica vi è un testo di Martin Buber molto bello: “Il cammino dell’uomo”, che riporta una conferenza che fece in Olanda nel 1947. Inizia con un raccontino chassidico.

Ritorno a se stessi: Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura.

Alla fine chiese: “Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?».

“Credete voi - rispose il Rav - che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?”. “Sì, lo credo”, disse. “Ebbene - riprese lo zaddik - in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo?’

Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’”.

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: “Bravo!”; ma il cuore gli tremava.

Dio domanda ad Adamo, quindi all’uomo, quindi a ognuno di noi: “Dove sei? Dove sei nella tua vita? Adamo si era nascosto. Si nascose come si nasconde ogni uomo per non rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita, dice Buber.

Questo è importantissimo: abbiamo un compito, abbiamo una responsabilità della nostra vita. Chi non vive responsabilmente, non vive, semplicemente.

Vivere nella superficialità, vivere nella banalità, vivere nella velocità, ti porta invecchiare, ma senza sapere mai “dove sei”.

Buber dice: abbiamo fatto della nostra vita un congegno di nascondimento. Ci nascondiamo sempre, a Dio per non rendere conto, ma in ultima analisi a noi stessi: ci nascondiamo talmente che alla fine non sappiamo neanche più “chi siamo”: chi sono io? Che cos’è la vita?

Con questa domanda Dio vuole distruggere il congegno di nascondimento dell'uomo, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata.

Gli pone questa domanda per far rinascere la necessità di venire fuori, di rinascere, di venire alla luce, di risvegliarsi!

Il cammino che ciascuno è chiamato a intraprendere è un cammino di rinascita, di ri-svegliarsi. Il rischio è quello di vivere una vita da addormentati, di lasciarsi vivere! Disattendendo così il nostro unico compito: costruire noi stessi! Abbiamo una responsabilità verso noi stessi: venire alla luce di noi stessi.

Gesù, tutto il Vangelo cerca semplicemente di riportare alla vita, alla luce questo Lazzaro che è morto, e che rischia di vivere dentro un sepolcro.

Buber scrive: Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”. Qui inizia il cammino dell’uomo.

Dove sei? Possiamo fare tante cose, anche sante, ma senza sapere a che punto siamo della nostra vita, della nostra costruzione.

Fino a quando non arriviamo a dire: “Mi sono nascosto” non potremo iniziare nessun cammino. Il prendere atto di esserci nascosti, quello è il principio del cammino, lì comincia la nostra vita. Il primo momento è ritornare a se stessi, entrare dentro di sé. Rispondere alla domanda “Dove sei?” è proprio cominciare questo cammino, faticoso verso se stessi, non fuori.

Non è facendo tanta strada che arriviamo a sapere chi siamo, ma entrando dentro di noi, nella parte più intima, più profonda, il cuore.

Il ritorno dentro se stessi è sempre il principio di un’uscita fuori se stessi. Non si entra verso se stessi per rimanere lì. Si entra verso se stessi, si scopre la propria fonte, si scopre  chi siamo, da cosa siamo inabitati, la nostra verità, la nostra libertà, per poter uscire da noi, e andare verso l’altro.

Perché c’è anche un entrare in noi stessi che può essere devastante, che scopre soltanto gli aspetti malvagi, gli aspetti che non ci piacciono, e fermarsi lì. No! Entrare per poter uscire.

Il secondo passo, dice Buber, Una volta che entri dentro te stesso - e per questo probabilmente ci vorrà una vita, perché il rischio è quello di abitare fuori da noi stessi, di vivere sempre nella distrazione, di vivere sempre fuori da noi stessi, ma questo non è salvezza - … Entrare dentro noi stessi per poter intraprendere la propria via, la propria strada.

La propria via. Per giungere al compimento di sé ciascuno deve intraprendere con decisione la propria strada, perché ognuno ha la sua via da percorrere.

Perché non dobbiamo ricalcare – dice Buber - nessuna strada già percorsa.

Per quanto le strade degli altri siano grandi, siano sante - pensiamo alla vite dei santi - quella non è la mia strada. Io ho solo la mia strada, e devo comprenderla, entrando in me stesso.

Dice Buber: “Per quanto infimo possa essere, se paragonato alle opere dei patriarchi, ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo valore risiede nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi proprio e con le nostre forze”.

Bellissimo! La maggior parte di noi fa piccole cose, eppure il suo valore risiede nel fatto che siamo noi a realizzarlo: è la mia via!

A noi non è che è chiesto di essere San Francesco,  o santa Teresa di Calcutta o santa Teresa di Lisiex, no.

C’è un detto ebraico che dice che alla fine dei tempi non ci verrà chiesto perché non siamo diventati Mosé, ma perché non siamo diventati noi stessi!

Diventare se stessi è l’unico grande compito che abbiamo.

“Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo, e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo”.

Ciascuno ha la sua via.

Buber qui ha dei passaggi bellissimi: “Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituiscono la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità dei camini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo”.

Ciascuno ha la sua personalissima strada da percorrere.

Dio non dice: “Questo cammino conduce a me, quell’altro no. Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo che ti conduca fino a me.

Ciascuno ha la sua strada, per quanto infima, e addirittura, per quanto sbagliata.

Dio sposa le conseguenze del mio male.

Se uno sbaglio, un peccato, se il male commesso mi fa poi intraprendere una strada sbagliata, io sono sicuro poi che Dio è in quella strada.

Dio sposa le conseguenze del mio male. È importantissimo.

Un altro aspetto su cui Buber torna, è che questo cammino verso noi stessi, per arrivare a scoprire la nostra verità ha come prima obiettivo quello della trasformazione del sé.

Ci si accorge che l’unico modo per trasformare il mondo è trasformare noi stessi; l’unico modo per cambiare il mondo, non è fare le rivoluzioni. Per cambiare la situazione intorno a me, non è questione di cambiare le persone o le strutture. Le rivoluzioni, anche quelle piccole intorno a noi, sono sempre state devastanti, hanno portato male, maggiore male di quello che c’era precedentemente alla rivoluzione. L’unico cambiamento è il cambiamento del sé, la trasformazione del sé.

Buber dice: “Bisogna che l’uomo si renda conto che le situazioni conflittuali che lo oppongono agli altri sono solo conseguenze delle situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore, per potersi così rivolge ai suoi simili da un uomo trasformato”.

Comincia da te stesso, è l’unica cosa che conta, dice Buber. Quanto è importante entrare in se stessi per conoscersi veramente, per fare verità in sé.

“Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso.

Archimede dice: “datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”. Il punto d’appoggio è la trasformazione del sé.

“Cosi insegnava Rabbi Bunam: “I nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata”.

L’importanza del momento presente e del luogo in cui ci si trova a vivere.

L’unico modo per arrivare al compimento del sé è vivere il qui ed ora, il tempo presente e il luogo presente: hic et nunc. Non c’è altro luogo di compimento se non il luogo e il tempo che sto vivendo. Questa è una grande salvezza da tutti i tentativi di fuga nel tempo, nello spazio, nel pensare che ci possa essere salvezza da qualche altra parte.

C'è poi un epilogo molto bello: uno sogna che c’è un tesoro lontanissimo, e lui intraprende questo viaggio, e raggiunge questo posto, e parla con una guardia e dice: “Io ho saputo che sotto questo ponte c’è un tesoro”, e l’altro dice: “ma dove l’hai saputo?” “l’ho saputo in sogno”,

Eh ma se stessi attento ai sogni, allora a casa di questo personaggio - e cita nome e cognome - dovrebbe esserci un grande tesoro, vuoi mica che io dia retta ai sogni!”

Allora l’altro che ha quel nome e cognome dice: “Accidenti! ma allora il tesoro e sotto la mia stufa!”

Allora lui dice: “è sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il tesoro!”

“Secondo il Baal-Shem, (un altro rabbino) nessun incontro - con una persona o una cosa - che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto. Gli uomini con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento… Se pensiamo solo agli scopi che noi ci prefiggiamo, allora anche noi ci lasciamo sfuggire l’esistenza autentica, compiuta. … La più alta cultura dell’anima resta fondamentalmente arida e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima; …. Dio abita dove lo si lascia entrare. … La questione è vivere ogni momento, ogni situazione sapendo che proprio lì Dio è all’opera, lì, In quella piccola situazione, in quella piccola opera”.

E qui Buber dà una bellissima definizione di grazia, della grazia di Dio. La grazia di Dio non è un intervento esterno che metta a posto le cose, non è questo.

Siamo sempre assetati di miracolismi. Dio non interviene dall’esterno come un mago: Dio non è un mago, e la grazia non è un intervento miracoloso.

“Noi crediamo - dice Buber - che la grazia di Dio consiste proprio in questo suo volersi lasciar conquistare dall’uomo, in questo suo consegnarsi, per così dire, all’uomo. Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo. Ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovrumana del genere umano.”

Dio interviene nella mia vita attraverso la mia vita, non ci bypassa, non ci supera! La grazia non ci supera! La grazia di Dio dilata la mia vita. L’incarnazione di Gesù è questo! Si è fatto uomo! Non ha bypassato l’uomo.

Non buttiamo mai via nulla di ciò che è umano, di quello che viviamo, delle nostre storie storte e sporche, perché Dio ne fa luogo di compimento, di incontro. Dio non ha nulla da buttare via di noi, nulla! Noi ci buttiamo via, perché abbiamo delle idee di perfezione perverse, ma Dio no! Ecco la grazia.

“Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio.”

Lasciarsi disturbare, pungolare, destabilizzare, da questa domanda che Dio rivolge ad Adamo in Genesi: “dove sei?”

Se entriamo veramente in contatto con Dio attraverso la Parola soprattutto, attraverso l’ascolto, noi ci distruggiamo. Distruggiamo il nostro ego e verremo alla luce del nostro vero sé. Dentro di noi c’è l’ego e c’è il sé.

Che Dio distrugga pure il nostro falso sé, il nostro ego, la nostra falsa persona, le nostre maschere, quello che noi facciamo vedere agli altri; noi rischiamo di passare una vita in un sé, attraverso un sé che non è nostro, che ci siamo costruiti, per nasconderci, o per far apparire agli altri quello che non siamo.

Gesù è venuto distruggere questo nostro ego, questo io perverso, per far emergere la vera persona; allora “dove sei?” vuol dire soltanto, a questo punto: “chi sei? Chi sei veramente?”

Questa è la domanda: “chi sei?”

Forse noi continuiamo a manifestare agli altri, al mondo, in tutte le nostre situazioni, un qualcuno che non siamo. Il problema è che non sappiamo neanche noi chi siamo veramente, perché così abituati a vivere di questo ego.

Dio ci distrugga per farci arrivare alla verità di noi, e come dice Gesù in Giovanni, se arriviamo a questa verità, arriveremo finalmente alla libertà, perché “la verità vi farà liberi”, e la smetteremo di recitare, la smetteremo di dare quello che gli altri si aspettano.

“La verità vi farà liberi”.